Scuola, il benessere degli insegnanti: una nuova frontiera dell'insegnamento

L’insegnamento è una professione di cura. La ricerca psicopedagogica descrive, ormai da circa trent’anni, il ruolo della relazione insegnante-studente non solo sul processo di insegnamento-apprendimento tout court, ma anche sulla salute e il benessere di docenti e alunni.

Lavorare in una classe con un buon clima emotivo consente di apprendere meglio, di insegnare con più chiarezza e più dedizione, di creare un clima di generale coinvolgimento intorno all’oggetto di studio.

Di recente, la psicologia positiva (che si occupa del benessere personale e relazionale) ha iniziato a delineare gli effetti delle emozioni positive vissute in classe sul successo scolastico e sul benessere dell’intera comunità scolastica. Secondo la teoria broaden-and-build di Barbara Fredrickson, vivere emozioni positive amplia il repertorio cognitivo e comportamentale delle persone che condividono la relazione, rende più recettivi nei confronti di ciò che accade nell’ambiente, e più creativi e flessibili nell’approcciarsi alle situazioni quotidiane.

È evidente che in una classe una tale spirale di positività si tradurrebbe non solo in un migliore profitto scolastico, ma anche in maggiore autostima, coinvolgimento e benessere, in chi impara, ma anche in chi insegna (e si sente efficace nel proprio ruolo di docente). Ecco che un insegnante in grado di portare emozioni positive in classe può tradursi in un catalizzatore di apprendimenti, entusiasmo, creatività. Ecco che l’insegnamento non è solo inculturazione, ma educazione, cura dell’altro, del suo sviluppo e della sua realizzazione.

Ma non è sempre così facile: la relazione insegnante-studente si inserisce all’interno di una rete intricata e sottile. L’istituzione scolastica, il preside, il collegio docenti, le famiglie, la comunità a cui si appartiene, le riforme educative influenzano non solo i modi con cui si insegna e si apprende, ma anche le relazioni attraverso cui si dipanano questi processi e il clima emotivo nel quale si inseriscono. Chi insegna non può “solo” insegnare, né educare. È chiamato ad occuparsi della burocrazia, dell’INVALSI, delle certificazioni. La professione docente non è mai “personale”: dialoga con l’istituzione, risente delle trasformazioni sociali, è inserita in un contesto relazionale che coinvolge studenti, altri docenti, dirigenza e personale amministrativo.

A fronte di una tale responsabilizzazione, di un tale aumento di funzioni, compiti e oneri, mancano gli onori. Secondo i dati OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), gli insegnanti italiani sono tra i più sottopagati d’Europa. Non ricevere uno stipendio congruo alle funzioni svolte, e a quello di altre professioni pubbliche di pari livello, non rappresenta solo un mancato compenso finanziario: diventa la spia di un ridotto riconoscimento sociale. Non solo: la spesa pubblica a favore delle istituzioni educative è sensibilmente inferiore alla media degli altri paesi OCSE e il corpo docenti è completamente sbilanciato, per genere (circa il 80% degli insegnanti italiani è di sesso femminile) ed età (il corpo docente italiano è il più anziano d’Europa).

L’insegnamento è una professione di cura. E la cura spesso implica la presa in carico di problematiche e aspettative legate non solo all’insegnare, ma anche agli studenti, al loro benessere, alle loro difficoltà, al loro sviluppo. È in questa relazione di cura che si colloca il rischio di burnout, una sindrome che coniuga la mancata tolleranza per il carico emotivo e relazionale connaturato alla propria professione con la paura di non farcela e la necessità di distaccarsi emotivamente dalle persone con cui si lavora, di disinteressarsi alle relazioni stesse. Ma non solo: il burnout riduce il senso di autostima, la propria soddisfazione lavorativa, la capacità di regolare emozioni e comportamenti dentro e fuori la scuola.

Si innesca, allora, un meccanismo circolare: più sollecitazioni emotive e relazionali ricevo, meno mi sento in grado di gestire il carico emotivo, più sregolatamente risponderò alle richieste lavorative e relazionali, che percepirò come sollecitazioni sempre meno “gestibili”. Quando si raggiunge il burnout? Quando per circostanze personali e/o lavorative, le risorse a propria disposizione vengono meno, per lasciare il passo a percezioni distorte delle proprie capacità e delle proprie abilità. Fatto salvo che lo stress lavorativo interessa la vita di ognuno, e che le professioni di cura in genere (sanitarie e educative) sono particolarmente caratterizzate da stress provenienti da richieste relazionali, il modo in cui si risponde all’evento stressante non varia solo in funzione delle proprie abilità, ma anche in funzione delle risorse messe a disposizione dall’ambiente professionale e della qualità delle proprie relazioni professionali e personali.

Tra le sollecitazioni al malessere degli insegnanti, c’è una chiave di volta, spesso non considerata: mentre le riforme, il salario, il precariato, sfuggono al controllo e all’influenza del singolo insegnante, il benessere personale, la percezione di sé e delle proprie relazioni, la gestione del crocevia di informazioni, istanze e sollecitazioni è una scelta. La riappropriazione del benessere da parte degli insegnanti, ma anche da parte di qualsiasi altra persona, in ogni condizione lavorativa, origina dalla riconsiderazione e dalla riappropriazione della possibilità di scegliere. Diversi studi hanno mostrato che vivere ripetutamente esperienze negative (o interpretate come tali) porti a forme di impotenza appresa: si finisce per convincersi di non farcela, di non poter gestire, sostenere e controllare gli eventi o le relazioni.

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Si pensa che la resilienza, il coping, l’efficacia siano capacità calate dall’alto, innate e non acquisibili. La ricerca psicologica dimostra che l’ottimismo e la resilienza si apprendono, e che non è necessario stravolgere la propria vita o cambiare lavoro per stare bene mentre si svolge la propria professione. Del resto, la professione di insegnante origina da una vocazione alla relazione con gli studenti, come dimostrano tutti quegli studi che confrontano il modo in cui insegnanti di età diversa percepiscono il benessere, trovando, quasi invariabilmente, che i docenti più giovani sono meno stressati di quelli più anziani.

Come apprendere l’ottimismo, allora? Cosa fare per affrontare un luogo di lavoro stressante? La risposta più profonda, e apparentemente più banale, è darsi la possibilità di cambiare il modo di vedere le cose. In questo senso, una delle possibili risposte secondo la psicologia positiva è dare priorità alle esperienze positive che si verificano durante la giornata. La capacità di focalizzarsi senza sforzo sul negativo, sul pericolo e la minaccia è servito ai nostri antenati come campanello d’allarme per salvarsi la vita: oggi spendiamo la maggior parte del nostro tempo in luoghi sicuri, spesso in situazioni confortevoli e positive, senza rendercene conto.

Allenare la consapevolezza su quanto di positivo, e apparentemente insignificante, accade durante la giornata (un gesto di gentilezza, un sorriso alla cassa del supermercato, una chiacchiera con un vicino di casa o un collega), allena l’ottimismo e la resilienza. Gli strumenti per farlo sono diversi: dal diario ai questionari da compilare online quotidianamente, alla meditazione. Tutte queste tecniche hanno dimostrato non solo di aumentare i livelli di benessere percepito, ma anche di rendere più pronti ad affrontare e gestire momenti stressanti, di aiutare a “recuperare” più facilmente dopo un’esperienza negativa e, in generale, di stare meglio con se stessi e con gli altri.

Costruire risorse personali mette l’insegnante, così come qualsiasi altro professionista, nelle condizioni di disporre di una serie di strumenti, che gli consentano di gestire meglio non solo il carico lavorativo e burocratico, ma anche le relazioni con i diversi interlocutori del contesto scuola.

Ilaria Buonomo